ROSE D’INDIA – bellezza e sofferenza
Mi sono recato in India quando ormai si era esaurita la fascinazione che negli anni Settanta aveva sedotto tanti miei amici. Ho percorso in lungo ed in largo il subcontinente non per sfuggire o evadere dal mondo occidentale limitato e materialista; attraverso la macchina fotografica cercavo con semplicità esistenze e volti nuovi. In India non si possono ignorare gli aspetti del misticismo totalizzante che pervade la realtà quotidiana e che riguarda molto le donne. Il mio amico Terenzio Rosati mi aveva parlato dell’importanza del mito di Devi, la Grande Madre. Mi ero riproposto di poter comunicare, con uno scatto dopo l’altro, le sensazioni che mi coinvolgevano in quel flusso circolare caratteristico dell’India. Immaginavo le donne come delle dee, per come erano rappresentate nelle pubblicità, nei manifesti cinematografici e nei templi. La realtà però era più complessa: contrapposti alla corrente induista dello Saktismo, dove donne e uomini concorrono a realizzare l’armonia dell’universo, ricorrevano episodi violenti quali gli “omicidi di fuoco”, gli stupri delle donne che trasgredivano alle tradizioni e la pratica della Devadasi, ovvero la prostituzione sacra delle bambine. Mi sono trovato a fronteggiare un’enigma: perché le donne indiane non si oppongono ad una cultura patriarcale millenaria ormai diventata puritana? La religione Indù come qualsiasi altro pensiero e dottrina che trascuri l’aspetto erotico della vita o addirittura sopprima il valore sacro del femminile non può portare se non al nostro declino. Anche oggi è in corso una censura che tende a falsificare la realtà; la fotografia può fare molto per raggiungere verità e purezza.